Stefano Aruta

 
Il fine della musica, per me
Omaggio a Ida Presti

Bistrot

“Putaine!”
Pensò Bernard, tirando su il bavero di un paltò che aveva conosciuto tempi migliori, “ci mancava solo la neve a novembre, quest’anno!
Certo, l’anno che volgeva al termine non era stato per lui dei migliori, anzi, era stato un vero schifo.
“Finalmente questo fottuto 1938 sta per finire”, pensò tra sé e sé, ma, nell’attimo stesso in cui cercava di consolarsi con questo banale concetto, prese coscienza che per lui il ’39, il ’40, il ’41 non sarebbero stati poi così diversi e, se è possibile, il suo volto si ingrigì ancora di più, di quel grigiore che solo una rassegnazione non desiderata sa dare.
Per lui, piccolo borghese, ma proprio piccolo, nato in una cittadina di provincia, la venuta a Parigi, poco meno di dieci anni prima, aveva rappresentato il sogno, l’opportunità, la fuga; poi tutto si era trasformato in un modesto impiego, in un monolocale cucina e bagno in comune, a rue Chatillon, periferia Est della Ville Lumière.
Mentre la neve punteggiava di rabbia il suo animo inconsapevole, Bernard vide l’insegna di un modesto bistrot, di quelli che riempiono la Parigi dei piccoli travet, dei rappresentanti di biancheria a buon mercato, delle ragazze un po’ modelle e un po’ puttane, innocenti però, come solo la verità sa esserlo, insomma rifugi di singolarità dolenti.
Quasi per prendere a calci la tristezza, divenuta troppo pesante per essere portata a spasso, mandò al diavolo la frittata nella quale avrebbero dovuto trasformarsi le due uova comprate poc’anzi e decise di trasgredire.
“Stasera si cena fuori!”
Disse a se stesso, e gli parve per un istante, che tutto il mondo cantasse la Marsigliese.
Spinta la porta del bistrot, fu graffiato dalla delusione, una delusione piccola ma che colmava la misura: la temperatura all’interno non era di molto differente da quella esterna; e ciò per due ragioni: l’assoluta mancanza di riscaldamento e l’esiguo numero degli avventori.
Prese posto ad un tavolo vicino al bancone, sul quale una fila di bicchieri opachi sembrava la caricatura di un picchetto d’onore, e dietro al quale una donna grassa era affaccendata in un assoluto far niente.
Si era seduto con la consapevolezza di commettere una seppur piccola trasgressione, una minima rivalsa sulla vita e mentre assaporava questa piccola gioia giacobina, guardò la lavagnetta, sulla quale a gesso era scritto il menù.
Ordinò, dando soddisfazione alla grassona, che lo interrogava, muta, con espressione annoiata, la quale a sua volta annuì con un gesto meccanico atemporale.
Mentre aspettava, Bernard cominciò a guardarsi intorno, cogliendo appieno lo squallore del posto e della situazione; nonostante tutto nessuno era riuscito a rubargli l’unica cosa della quale avrebbe fatto volentieri a meno: una estrema sensibilità che, visto il caso, era aceto sulle ferite. Così, mentre si lasciava sopravvivere, cominciò, quasi per gioco, ad imbastire improbabili storie sugli altri avventori del bistrot.
In particolare, fu attratto da un tavolo alla sua destra, lui era sulla cinquantina, lei per contro era molto giovane, pensò che avesse si e no vent’anni, nonostante lo sguardo apparisse segnato e senza età.
Sulle prime si fece l’idea che fossero padre e figlia, ma da come lui rideva e lei si sforzava di apparire divertita, scartò subito l’ipotesi.
Poi, si ricordò di essere un uomo, e fu attratto dalla figura di lei.

Esile e ben fatta, le gambe nervose, quasi da ragazzo, le si intravedevano dallo spacco generoso della gonna, ed una coppia di piccoli giovani seni, faceva capolino, da una camicetta lasciata di proposito troppo slacciata.
Fu eccitato da quella figura, poi dolcemente, come nel passaggio tra veglia e sonno, i suoi pensieri cambiarono direzione, sospinti, come una vela, da brezze, che ormai credeva morte.
Si ritrovò a pensare, che, se avesse potuto, l’avrebbe pagata lui per due ore, non per scopare ma per starsene abbracciati, stretti stretti, a vedere la neve cadere e far finta di essere felici.
Le sue fantasticherie furono interrotte bruscamente dal tintinnio della porta, entrarono tre persone, un evidente gruppetto familiare –padre madre e figlia- vestiti in maniera più che modesta ma con grande dignità.
Ciò che più lo colpì fu la ragazzina, poteva avere tredici o quattordici anni ed aveva con sé un astuccio di chitarra.
La ragazzina era di notevole bellezza, nonostante l’età facesse del suo corpo un qualcosa di transizionale, se così si può dire.
Dai suoi occhi neri saettava una luce che pareva l’essenza stessa della vita.
All’apparire del gruppetto, il volto della grassona parve di colpo riprendere plasticità.
Era evidente trattarsi di amici di vecchia data, la cui visita risultava molto gradita.
Pulendosi le mani con un canovaccio, la donna andò incontro al terzetto con grande cordialità: “Come va madame Montaignon?”
Alla domanda, la nuova arrivata rispose con un evidente accento italiano che tutto andava bene; le due donne si abbracciarono e l’ostessa insistette affinché i tre si fermassero a mangiare qualcosa, con l’evidente intento di tramutare una fugace visita in qualcosa di più duraturo, come quando si vorrebbe ritardare il tramonto del sole o la venuta dell’alba.
Ciò che più balzò agli occhi di Bernard fu il rianimarsi della donna grassa, come se d’improvviso un burattinaio, precedentemente addormentatosi, avesse ricominciato a muovere i fili della marionetta.
I quattro cominciarono a conversare con grande cordialità, fin quando la donna grassa chiese alla ragazzina, quasi a bruciapelo, di suonare qualcosa.
Allora la fanciulla guardò il padre, negli occhi del quale si accese una luce di orgoglio, e senza dire altro, imbracciò con un amore infinito la sua chitarra e cominciò a suonare.
Bernard non capiva nulla di musica, ma si accorse che lo strumento pareva essere il prolungamento naturale della ragazza, una parte da cui emanava una energia incredibile, un qualcosa di bello che sembrava ripulire tutto: uomini, cuori e cose.
Man mano che la ragazza suonava a Bernard pareva che facesse meno freddo, che qualcosa di strano stesse accadendo.
I palpeggiamenti dell’uomo alla sua destra sembravano tramutati in carezze… …tenere… …dolci, così come il volto della ragazza , adesso incorniciava due occhi belli, tornati ad essere due pezzi di arcobaleno.
Forse per disperazione, o forse per davvero, pensò, che un piccolo miracolo stesse accadendo. Dopo circa mezz’ora, la ragazzina smise di suonare, sul suo volto però permaneva una gioia trasognata, gioia almeno pari, a quella che aveva donato a quello scampolo di umanità sofferente. La donna grassa abbracciò la ragazzina e disse: “Che Dio ti benedica, mia piccola Ida”.
Dopo un poco, ancora quasi inebetito, Bernard pagò il suo conto e uscì.
Inspirava a pieni polmoni l’aria pungente, come a volersi per forza risvegliare, quando udì sbattere la porta, era la ragazza dai piccoli seni che, piangendo, gli si avvicinava.
Quando la fanciulla fu a pochi passi da lui Bernard la guardò, ed ebbe la sensazione che a chiedergli del fuoco, fosse uno scricciolo impaurito… … … ma Bernard in vita sua non aveva mai fumato, “fa niente” disse lo scricciolo… … “Ma non lasciarmi sola! Ho paura, sto male”. Allora Bernard, senza parlare e non pensando a nulla, si avvicinò, le cinse le spalle e le fece il giochino del “naso prigioniero”.
Lei, tirando su col naso, sorrise, lui fu l’imperatore del mondo.


* * *


Chiosando di chitarre

La mia chitarra interiore – come scegliere una chitarra

Da tempo pensavo di scrivere qualcosa sulla chitarra, ma tutto era rimasto ad un livello talmente embrionale, sfocato, nebuloso, da non lasciare intravedere neanche i contorni della forma che avrei voluto assumessero i miei pensieri una volta tramutati in segno grafico, anche perché non avendo assolutamente dimestichezza con l’Ars Scribendi, ero terrorizzato alla sola idea di un foglio bianco da riempire, terrore almeno pari a quello di dare una forma a pensieri a volte caotici e appena abbozzati. Che fare? Un trattato di tecnica certamente no! La presunzione è una valigia che da qualche tempo le mie braccia, non da molto, hanno cessato di portare. Gente molto più qualificata di me ha ormai detto quasi tutto ed il contrario di tutto sull’argomento; cosa potrei aggiungere io? Per dirla tutta credo che i destinatari di questi miei modesti scritti si siano tediati abbastanza di discettazioni a base forma unghie, fattori di suono k o d, palline da ping-pong e simili argomenti, dotti e importanti, non v’è dubbio alcuno, ma più utili a quanti intraprendono l’impervio cammino, poi mica tanto, della conoscenza della tecnica cinetica, che a quanti già padroni se non altro dei propri desiderata, congiuntamente ad una già confermata capacità tecnica, coltivano come fiori preziosi, dubbi disagi ai quali non sempre è facile dare risposte senza il confronto con il pensiero altrui, pur non condividendolo necessariamente; “VAE CERTIS
In poche parole, alla fine, ho scelto di scrivere sotto forma di lettera aperta ai miei Allievi, passati, presenti e futuri, ove mai ve ne saranno.
Dedico questo mio pot-pourri di pensieri, concetti e forse anche farneticazioni a quanti, anche solo per pochi giorni o ore, hanno voluto contattarsi con me con il pensiero di apprendere qualcosa, e dai quali io stesso ho avuto sempre qualcosa.
Li ho amati tutti, ripagati di ugual moneta, anche se solo per un istante, istante per il quale sarei pronto a rivivere anche tutte quelle amarezze derivate a volte da incomprensioni reciproche, altre volte da puro e premeditato calcolo.


Come scegliere una chitarra

Dopo circa 45 anni di convivenza con la chitarra, 40 di attività didattica full time e di esperienza quale giurato nei più prestigiosi concorsi internazionali, ma soprattutto in occasione di master class da me tenute, ho potuto constatare quanta poca oculatezza, in genere, si pone nella scelta dello strumento. Quasi costantemente ho notato da parte della maggioranza dei chitarristi, al di là delle loro stesse affermazioni, spesso entusiastiche, circa proiezione, potenza, equilibrio, pulizia armonica, ecc. riguardo al loro strumento, una sorta di sottile disagio, insoddisfazione, quasi sempre neanche cosciente, che spinge lo strumentista ad una continua ricerca non consapevole dello strumento ideale.
Fin qui poco male, anzi, la ricerca del meglio è alla base di ogni crescita interiore, ma il problema risiede proprio in quel “non consapevole”, vero problema che a volte si traduce in una spirale perversa. Cercherò di spiegare meglio questo concetto: ho visto persone dalle notevoli potenzialità frustrate, bloccate; in certi casi rassegnate a causa di un quid, apparentemente inspiegabile, che blocca il libero fluire del loro essere nel corso di una esecuzione (ovviamente, e lo sottolineo con vigore, non parlo di persone dalla tecnica deficitaria e ancora in formazione né di persone dalla personalità musicale non ancora sbocciata); et le voilà: il vero problema risiede nel fatto che lo strumento usato da queste persone è troppo lontano dalla chitarra interiore che ciascuno porta dentro.
In molti casi lo strumento è stato scelto in base a fattori che poco o nulla hanno a che spartire con l’unico elemento che dovrebbe determinare la scelta e cioè la somiglianza più stretta possibile tra lo strumento, amplificatore e materializzatore della nostra chitarra interiore, della nostra voce mistica, e lo strumento usato. Spesso lo strumento viene scelto per emulare il grande mito nel quale ci si vorrebbe riconoscere; per imposizione più o meno occulta di vari vati-maestri-depositari-della-verità o per infatuazione, simile a quella che spinge nelle braccia reciproche persone lontane anni luce che danno vita a connubi destinati a fallire miseramente al primo calar di testosterone. Non ultimo poi, nella guida alla scelta, ha un peso notevole l’appagamento dell’orgoglio direttamente proporzionale alla quantità di dollari, euro, yen o quant’altro abbiamo sborsato per il possesso dell’oggetto; tutto ciò finisce con il creare un perverso gioco delle coppie nel quale strumenti pregevoli finiscono nelle mani di validi musicisti, creando però un insieme disarmonico, stonato, solo perché  la scelta non è stata frutto di un atto d’amore, espressione che da questo momento in poi userò di frequente semplicemente perché credo che il fare musica debba essere sempre e comunque un atto d’amore.
Mi chiederete ora, dopo questa mia discettazione come, secondo me, vada scelto uno strumento; domanda più che legittima, alla quale cercherò di rispondere in maniera chiara.
A questo punto però è utile rifare una precisazione, repetita iuvant, questo mio scritto è rivolto a chi già possiede una preparazione tale da saper individuare quelli che sono veri e propri errori di costruzione, qualità dei legni scadenti, quegli elementi insomma in assenza dei quali è inutile fare ogni altro distinguo. È ovvio che mi rivolga con i miei consigli a una fascia di utenza per la quale una dignitosa qualità di base è già una conditio sine qua non.
Innanzitutto quando scegliete una chitarra, quella che diverrà la voce delle vostre emozioni, il tramite tra voi e coloro che vi ascolteranno, cercate di conoscere quanto più è possibile l’artefice del vostro strumento, il liutaio; quest’uomo, artista almeno quanto voi, infonderà inevitabilmente nei suoi strumenti una parte di sé che rimarrà impressa indelebilmente come una specie di DNA; per questo, anche nell’impossibilità fisica di conoscere personalmente l’autore del vostro strumento, cercate di conoscere quante più cose è possibile sul suo conto, sul suo pensiero, sul suo modo di fare bottega, là ove possibile leggete i suoi scritti, e per quanto è possibile cercate di conoscere i suoi sogni.
Vi garantisco che questo è possibile anche nei confronti di liutai non più in vita, basta saper cercare: un aneddoto, uno scritto, un’intervista possono essere illuminanti per conoscere o quantomeno per avere una nostra opinione sulla confluenza o meno tra la nostra e la sua Anima.
Una volta assolto, per quanto possibile, il compito della ricerca delle affinità elettive, il che di per sé è già un buon inizio, quando una chitarra attrarrà la vostra attenzione, nel rapportarvi a lei non abbiate fretta di ascoltarne la voce, corteggiatela; anche se potrà apparire un controsenso è così! Prendetela tra le mani, cercate il contatto fisico, intimo non razionale, come quello del neonato con il seno materno, lasciatevi permeare dalle sue forme, lasciate che le sensazione che essa vi dà penetrino nei vostri pori, nei vostri occhi: guardatela, toccatela, sentitela, è lei che dovrete abbracciare per buona parte della vostra vita. Constatate che il contatto con lei vi dia delle sensazioni piacevoli, quasi voluttuose. Quanti hanno dimenticato, o non hanno mai conosciuto, la voluttà enorme che si può provare toccando o guardando un bello strumento vicino al nostro strumento ideale, interiore. Ciò vuol dire che se uno strumento non vi darà queste sensazioni non necessariamente sarà uno strumento cattivo, semplicemente non è il vostro, esattamente come accade nella vita ci si innamora di certe persone e non di altre.
Dopo questa prima fase passate a saggiarne la voce, per carità non lanciatevi in scale a folle velocità solo per saggiarne l’agevolezza, per aspera ad astra, né tantomeno iniziate a sciorinare i brani più difficili del vostro repertorio, non dovete dimostrare niente a nessuno, cercate dentro di voi quelle note “magiche” che ciascuno si porta dentro e provate a farle vivere attraverso lo strumento che state provando; se esse verranno fuori così come sono nel vostro scrigno intimo, se sarete appagati dal vedere trasformato in atto quello che dentro di voi è potenza, siete di fronte al vostro strumento.
Anche se la sua potenza sonora sarà un poco inferiore a certi “cannoni” che avete provato, ma che vi hanno lasciati perplessi, non esitate a sceglierla.
La voce della vostra verità arriverà più lontano perché sarete voi e non ciò che vorreste apparire, nulla è più muto di una menzogna.
Se la sua tastiera sarà per voi bella da toccare, la tensione delle sue corde vi trasmetterà la sensazione desiderata, che già avete dentro di voi non esitate a sceglierla, anche se sarà un poco grande o un poco piccola, le mani, se ben educate, si adatteranno con piacere alla dimensione della vostra nuova amante.
Ma se una sola delle sensazioni sopra descritte vi risulterà sgradevole o peggio “nemica” non esitate a passare oltre, non avete trovato ancora quello che in quel momento della vostra vita è il vostro strumento ideale. Non lasciatevi influenzare da etichette, da firme altisonanti o altro; continuate a cercare.
Ovviamente, purtroppo, gli amori non necessariamente sono eterni, ma è importante che ogni amore, finché dura, sia totale e senza riserve.
Spesso ho sentito dire, anche da eminenti colleghi, che il maestro Aruta ha sempre avuto una fortuna sfacciata con i propri strumenti; chi sa perché nessuno ha mai pensato che fossero semplicemente stati ben scelti. La riprova è che, quando in alcuni casi il ciclo d’amore cui facevo riferimento si è concluso ed ho divorziato da alcune delle mie chitarre, queste, considerate strumenti eccezionali, nel convolare a nuove nozze hanno smesso di essere quelle meraviglie che molti avevano creduto essere; il motivo, credo, risieda in una mancata nuova empatia.
Anche se ciò che sto per scrivere sembra contraddire la neutralità che mi ero preposto, alla fine di questa piccola trattazione non mi esimo dall’esprimere alcune considerazioni personali, fermo restante che quanto scritto all’inizio rimane la parte più cogente ed esiziale nella scelta di uno strumento. Le mie preferenze vanno senza dubbio a strumenti con tavola in abete e questo per il semplice fatto che ho riscontrato negli anni il fatto che, sebbene l’abete impieghi molto tempo ad essere plasmato, è più malleabile e nel tempo finirà con l’avere il “nostro” suono  e una tavolozza di colori infinita. Il cedro per contro, seppur immediatamente forse più performante, è notevolmente più statico e impersonale, o meglio con una sua propria personale coloritura che sarà onnipresente nel tempo, prendendo il sopravvento sul nostro suono interiore, a meno che esso non coincida con quello già insito e un po’ monocorde in questa essenza. Preferisco altresì chitarre dalla costruzione molto leggera; apparentemente questi strumenti paiono avere meno “decibel” ma sono molto più sensibili al minimo vibrato e ai cambi di timbro. Per me il vibrato è elemento indispensabile all’espressività dello strumento così come accade per gli strumenti ad arco, riuscireste a immaginare un violino o un violoncello senza vibrato? Inoltre in strumenti leggeri è facile ottenere una frequenza di risonanza di cassa molto più bassa, il che rimette a posto l’equilibrio dello strumento; in molti  “cannoni” dalla costruzione molto rigida e pesante trovo che l’equilibrio sia contrario a quello naturale, con bassi roboanti ma spesso vuoti e poco profondi a causa della mancanza di fondamentale che finiscono col sovrastare il registro acuto e cantabile dello strumento, creando in questa maniera un qualcosa di speculare e contrario al mio strumento ideale. La mia predilezione va altresì nella direzione di strumenti piuttosto piccoli, quasi sempre uno strumento più piccolo, ovviamente ben costruito, ha una messa a fuoco più precisa rispetto a quelli di grande formato ed è mia ferma convinzione che un suono più definito privo di aloni parassiti “arrivi” molto più lontano di un suono roboante ma confuso.