Il fine della
musica, per me
Omaggio a Ida
Presti
Bistrot
“Putaine!”
Pensò Bernard, tirando su
il bavero di un paltò che aveva conosciuto tempi migliori, “ci mancava solo la neve a novembre,
quest’anno!”
Certo, l’anno che volgeva
al termine non era stato per lui dei migliori, anzi, era stato un vero schifo.
“Finalmente questo fottuto 1938 sta per finire”,
pensò tra sé e sé, ma,
nell’attimo stesso in cui cercava di consolarsi con questo banale concetto,
prese coscienza che per lui il ’39, il ’40, il ’41 non sarebbero stati poi così
diversi e, se è possibile, il suo volto si ingrigì ancora di più, di quel
grigiore che solo una rassegnazione non desiderata sa dare.
Per lui, piccolo borghese,
ma proprio piccolo, nato in una cittadina di provincia, la venuta a Parigi,
poco meno di dieci anni prima, aveva rappresentato il sogno, l’opportunità, la
fuga; poi tutto si era trasformato in un modesto impiego, in un monolocale
cucina e bagno in comune, a rue Chatillon, periferia Est della Ville
Lumière.
Mentre la neve punteggiava di
rabbia il suo animo inconsapevole, Bernard vide l’insegna di un modesto
bistrot, di quelli che riempiono la Parigi dei piccoli travet, dei
rappresentanti di biancheria a buon mercato, delle ragazze un po’ modelle e un
po’ puttane, innocenti però, come solo la verità sa esserlo, insomma rifugi di
singolarità dolenti.
Quasi per prendere a calci la
tristezza, divenuta troppo pesante per essere portata a spasso, mandò al
diavolo la frittata nella quale avrebbero dovuto trasformarsi le due uova
comprate poc’anzi e decise di trasgredire.
“Stasera si cena fuori!”
Disse a se stesso, e gli parve
per un istante, che tutto il mondo cantasse la Marsigliese.
Spinta la porta del bistrot, fu
graffiato dalla delusione, una delusione piccola ma che colmava la misura: la
temperatura all’interno non era di molto differente da quella esterna; e ciò
per due ragioni: l’assoluta mancanza di riscaldamento e l’esiguo numero degli
avventori.
Prese posto ad un tavolo
vicino al bancone, sul quale una fila di bicchieri opachi sembrava la
caricatura di un picchetto d’onore, e dietro al quale una donna grassa era
affaccendata in un assoluto far niente.
Si era seduto con la
consapevolezza di commettere una seppur piccola trasgressione, una minima
rivalsa sulla vita e mentre assaporava questa piccola gioia giacobina, guardò
la lavagnetta, sulla quale a gesso era scritto il menù.
Ordinò, dando
soddisfazione alla grassona, che lo interrogava, muta, con espressione
annoiata, la quale a sua volta annuì con un gesto meccanico atemporale.
Mentre aspettava, Bernard
cominciò a guardarsi intorno, cogliendo appieno lo squallore del posto e della
situazione; nonostante tutto nessuno era riuscito a rubargli l’unica cosa della
quale avrebbe fatto volentieri a meno: una estrema sensibilità che, visto il
caso, era aceto sulle ferite. Così, mentre si lasciava sopravvivere, cominciò,
quasi per gioco, ad imbastire improbabili storie sugli altri avventori del
bistrot.
In particolare, fu
attratto da un tavolo alla sua destra, lui era sulla cinquantina, lei per
contro era molto giovane, pensò che avesse si e no vent’anni, nonostante lo
sguardo apparisse segnato e senza età.
Sulle prime si fece l’idea
che fossero padre e figlia, ma da come lui rideva e lei si sforzava di apparire
divertita, scartò subito l’ipotesi.
Poi, si ricordò di essere
un uomo, e fu attratto dalla figura di lei.
Esile e ben fatta, le
gambe nervose, quasi da ragazzo, le si intravedevano dallo spacco generoso
della gonna, ed una coppia di piccoli giovani seni, faceva capolino, da una
camicetta lasciata di proposito troppo slacciata.
Fu eccitato da quella
figura, poi dolcemente, come nel passaggio tra veglia e sonno, i suoi pensieri
cambiarono direzione, sospinti, come una vela, da brezze, che ormai credeva
morte.
Si ritrovò a pensare, che,
se avesse potuto, l’avrebbe pagata lui per due ore, non per scopare ma per
starsene abbracciati, stretti stretti, a vedere la neve cadere e far finta di
essere felici.
Le sue fantasticherie
furono interrotte bruscamente dal tintinnio della porta, entrarono tre persone,
un evidente gruppetto familiare –padre madre e figlia- vestiti in maniera più
che modesta ma con grande dignità.
Ciò che più lo colpì fu la
ragazzina, poteva avere tredici o quattordici anni ed aveva con sé un astuccio
di chitarra.
La ragazzina era di
notevole bellezza, nonostante l’età facesse del suo corpo un qualcosa di
transizionale, se così si può dire.
Dai suoi occhi neri
saettava una luce che pareva l’essenza stessa della vita.
All’apparire del
gruppetto, il volto della grassona parve di colpo riprendere plasticità.
Era evidente trattarsi di
amici di vecchia data, la cui visita risultava molto gradita.
Pulendosi le mani con un
canovaccio, la donna andò incontro al terzetto con grande cordialità: “Come va madame Montaignon?”
Alla domanda, la nuova
arrivata rispose con un evidente accento italiano che tutto andava bene; le due
donne si abbracciarono e l’ostessa insistette affinché i tre si fermassero a
mangiare qualcosa, con l’evidente intento di tramutare una fugace visita in
qualcosa di più duraturo, come quando si vorrebbe ritardare il tramonto del
sole o la venuta dell’alba.
Ciò che più balzò agli
occhi di Bernard fu il rianimarsi della donna grassa, come se d’improvviso un
burattinaio, precedentemente addormentatosi, avesse ricominciato a muovere i
fili della marionetta.
I quattro cominciarono a
conversare con grande cordialità, fin quando la donna grassa chiese alla
ragazzina, quasi a bruciapelo, di suonare qualcosa.
Allora la fanciulla guardò
il padre, negli occhi del quale si accese una luce di orgoglio, e senza dire
altro, imbracciò con un amore infinito la sua chitarra e cominciò a suonare.
Bernard non capiva nulla
di musica, ma si accorse che lo strumento pareva essere il prolungamento
naturale della ragazza, una parte da cui emanava una energia incredibile, un
qualcosa di bello che sembrava ripulire tutto: uomini, cuori e cose.
Man mano che la ragazza
suonava a Bernard pareva che facesse meno freddo, che qualcosa di strano stesse
accadendo.
I palpeggiamenti dell’uomo
alla sua destra sembravano tramutati in carezze… …tenere… …dolci, così come il
volto della ragazza , adesso incorniciava due occhi belli, tornati ad essere
due pezzi di arcobaleno.
Forse per disperazione, o
forse per davvero, pensò, che un piccolo miracolo stesse accadendo. Dopo circa
mezz’ora, la ragazzina smise di suonare, sul suo volto però permaneva una gioia
trasognata, gioia almeno pari, a quella che aveva donato a quello scampolo di
umanità sofferente. La donna grassa abbracciò la ragazzina e disse: “Che Dio ti benedica, mia piccola Ida”.
Dopo un poco, ancora quasi
inebetito, Bernard pagò il suo conto e uscì.
Inspirava a pieni polmoni
l’aria pungente, come a volersi per forza risvegliare, quando udì sbattere la
porta, era la ragazza dai piccoli seni che, piangendo, gli si avvicinava.
Quando la fanciulla fu a
pochi passi da lui Bernard la guardò, ed ebbe la sensazione che a chiedergli
del fuoco, fosse uno scricciolo impaurito… … … ma Bernard in vita sua non aveva
mai fumato, “fa niente” disse lo
scricciolo… … “Ma non lasciarmi sola! Ho
paura, sto male”. Allora Bernard, senza parlare e non pensando a nulla, si
avvicinò, le cinse le spalle e le fece il giochino del “naso prigioniero”.
Lei, tirando su col naso,
sorrise, lui fu l’imperatore del mondo.
* * *
Chiosando di chitarre
La mia
chitarra interiore – come scegliere
una chitarra
Da tempo pensavo di scrivere qualcosa sulla
chitarra, ma tutto era rimasto ad un livello talmente embrionale, sfocato,
nebuloso, da non lasciare intravedere neanche i contorni della forma che avrei
voluto assumessero i miei pensieri una volta tramutati in segno grafico, anche
perché non avendo assolutamente dimestichezza con l’Ars Scribendi, ero terrorizzato alla sola idea di un foglio bianco
da riempire, terrore almeno pari a quello di dare una forma a pensieri a volte
caotici e appena abbozzati. Che fare? Un trattato di tecnica certamente no! La
presunzione è una valigia che da qualche tempo le mie braccia, non da molto,
hanno cessato di portare. Gente molto più qualificata di me ha ormai detto
quasi tutto ed il contrario di tutto sull’argomento; cosa potrei aggiungere io?
Per dirla tutta credo che i destinatari di questi miei modesti scritti si siano
tediati abbastanza di discettazioni a base forma unghie, fattori di suono k o
d, palline da ping-pong e simili argomenti, dotti e importanti, non v’è dubbio
alcuno, ma più utili a quanti intraprendono l’impervio cammino, poi mica tanto,
della conoscenza della tecnica cinetica, che a quanti già padroni se non altro
dei propri desiderata, congiuntamente
ad una già confermata capacità tecnica, coltivano come fiori preziosi, dubbi
disagi ai quali non sempre è facile dare risposte senza il confronto con il
pensiero altrui, pur non condividendolo necessariamente; “VAE CERTIS”
In poche parole, alla fine, ho scelto di
scrivere sotto forma di lettera aperta ai miei Allievi, passati, presenti e
futuri, ove mai ve ne saranno.
Dedico questo mio pot-pourri di pensieri, concetti e forse anche farneticazioni a
quanti, anche solo per pochi giorni o ore, hanno voluto contattarsi con me con
il pensiero di apprendere qualcosa, e dai quali io stesso ho avuto sempre
qualcosa.
Li ho amati tutti, ripagati di ugual moneta,
anche se solo per un istante, istante per il quale sarei pronto a rivivere
anche tutte quelle amarezze derivate a volte da incomprensioni reciproche,
altre volte da puro e premeditato calcolo.
Come scegliere una chitarra
Dopo
circa 45 anni di convivenza con la chitarra, 40 di attività didattica full time e di esperienza quale giurato
nei più prestigiosi concorsi internazionali, ma soprattutto in occasione di
master class da me tenute, ho potuto constatare quanta poca oculatezza, in
genere, si pone nella scelta dello strumento. Quasi costantemente ho notato da
parte della maggioranza dei chitarristi, al di là delle loro stesse
affermazioni, spesso entusiastiche, circa proiezione, potenza, equilibrio,
pulizia armonica, ecc. riguardo al loro strumento, una sorta di sottile
disagio, insoddisfazione, quasi sempre neanche cosciente, che spinge lo
strumentista ad una continua ricerca non consapevole dello strumento ideale.
Fin qui poco male, anzi, la ricerca del meglio
è alla base di ogni crescita interiore, ma il problema risiede proprio in quel
“non consapevole”, vero problema che a volte si traduce in una spirale perversa.
Cercherò di spiegare meglio questo concetto: ho visto persone dalle notevoli
potenzialità frustrate, bloccate; in certi casi rassegnate a causa di un quid,
apparentemente inspiegabile, che blocca il libero fluire del loro essere nel
corso di una esecuzione (ovviamente, e lo sottolineo con vigore, non parlo di
persone dalla tecnica deficitaria e ancora in formazione né di persone dalla
personalità musicale non ancora sbocciata); et
le voilà: il vero problema risiede nel fatto che lo strumento usato da queste
persone è troppo lontano dalla chitarra interiore che ciascuno porta dentro.
In molti casi lo strumento è stato scelto in
base a fattori che poco o nulla hanno a che spartire con l’unico elemento che
dovrebbe determinare la scelta e cioè la somiglianza più stretta possibile tra
lo strumento, amplificatore e materializzatore della nostra chitarra interiore,
della nostra voce mistica, e lo strumento usato. Spesso lo strumento viene
scelto per emulare il grande mito nel quale ci si vorrebbe riconoscere; per
imposizione più o meno occulta di vari vati-maestri-depositari-della-verità
o per infatuazione, simile a quella che spinge nelle braccia reciproche persone
lontane anni luce che danno vita a connubi destinati a fallire miseramente al
primo calar di testosterone. Non ultimo poi, nella guida alla scelta, ha un
peso notevole l’appagamento dell’orgoglio direttamente proporzionale alla
quantità di dollari, euro, yen o quant’altro abbiamo sborsato per il possesso
dell’oggetto; tutto ciò finisce con il creare un perverso gioco delle coppie
nel quale strumenti pregevoli finiscono nelle mani di validi musicisti, creando
però un insieme disarmonico, stonato, solo perché la scelta non è stata frutto di un atto
d’amore, espressione che da questo momento in poi userò di frequente
semplicemente perché credo che il fare musica debba essere sempre e comunque un
atto d’amore.
Mi chiederete ora, dopo questa mia
discettazione come, secondo me, vada scelto uno strumento; domanda più che
legittima, alla quale cercherò di rispondere in maniera chiara.
A questo punto però è utile rifare una
precisazione, repetita iuvant, questo mio scritto è rivolto a
chi già possiede una preparazione tale da saper individuare quelli che sono
veri e propri errori di costruzione, qualità dei legni scadenti, quegli
elementi insomma in assenza dei quali è inutile fare ogni altro distinguo. È ovvio che mi rivolga con i miei
consigli a una fascia di utenza per la quale una dignitosa qualità di base è
già una conditio sine qua non.
Innanzitutto quando scegliete una
chitarra, quella che diverrà la voce delle vostre emozioni, il tramite tra voi
e coloro che vi ascolteranno, cercate di conoscere quanto più è possibile
l’artefice del vostro strumento, il liutaio; quest’uomo, artista almeno quanto
voi, infonderà inevitabilmente nei suoi strumenti una parte di sé che rimarrà
impressa indelebilmente come una specie di DNA; per questo, anche
nell’impossibilità fisica di conoscere personalmente l’autore del vostro
strumento, cercate di conoscere quante più cose è possibile sul suo conto, sul
suo pensiero, sul suo modo di fare bottega, là ove possibile leggete i suoi
scritti, e per quanto è possibile cercate di conoscere i suoi sogni.
Vi garantisco che questo è
possibile anche nei confronti di liutai non più in vita, basta saper cercare:
un aneddoto, uno scritto, un’intervista possono essere illuminanti per
conoscere o quantomeno per avere una nostra opinione sulla confluenza o meno
tra la nostra e la sua Anima.
Una volta assolto, per quanto
possibile, il compito della ricerca delle affinità elettive, il che di per sé è
già un buon inizio, quando una chitarra attrarrà la vostra attenzione, nel
rapportarvi a lei non abbiate fretta di ascoltarne la voce, corteggiatela;
anche se potrà apparire un controsenso è così! Prendetela tra le mani, cercate
il contatto fisico, intimo non razionale, come quello del neonato con il seno
materno, lasciatevi permeare dalle sue forme, lasciate che le sensazione che
essa vi dà penetrino nei vostri pori, nei vostri occhi: guardatela, toccatela,
sentitela, è lei che dovrete abbracciare per buona parte della vostra vita.
Constatate che il contatto con lei vi dia delle sensazioni piacevoli, quasi
voluttuose. Quanti hanno dimenticato, o non hanno mai conosciuto, la voluttà
enorme che si può provare toccando o guardando un bello strumento vicino al
nostro strumento ideale, interiore. Ciò vuol dire che se uno strumento non vi
darà queste sensazioni non necessariamente sarà uno strumento cattivo,
semplicemente non è il vostro, esattamente come accade nella vita ci si
innamora di certe persone e non di altre.
Dopo questa prima fase passate a
saggiarne la voce, per carità non lanciatevi in scale a folle velocità solo per
saggiarne l’agevolezza, per aspera ad astra, né tantomeno iniziate a
sciorinare i brani più difficili del vostro repertorio, non dovete dimostrare
niente a nessuno, cercate dentro di voi quelle note “magiche” che ciascuno si
porta dentro e provate a farle vivere attraverso lo strumento che state
provando; se esse verranno fuori così come sono nel vostro scrigno intimo, se
sarete appagati dal vedere trasformato in atto quello che dentro di voi è
potenza, siete di fronte al vostro strumento.
Anche se la sua potenza sonora
sarà un poco inferiore a certi “cannoni” che avete provato, ma che vi hanno
lasciati perplessi, non esitate a sceglierla.
La voce della vostra verità
arriverà più lontano perché sarete voi e non ciò che vorreste apparire, nulla è
più muto di una menzogna.
Se la sua tastiera sarà per voi
bella da toccare, la tensione delle sue corde vi trasmetterà la sensazione
desiderata, che già avete dentro di voi non esitate a sceglierla, anche se sarà
un poco grande o un poco piccola, le mani, se ben educate, si adatteranno con
piacere alla dimensione della vostra nuova amante.
Ma se una sola delle sensazioni
sopra descritte vi risulterà sgradevole o peggio “nemica” non esitate a passare
oltre, non avete trovato ancora quello che in quel momento della vostra vita è
il vostro strumento ideale. Non lasciatevi influenzare da etichette, da firme
altisonanti o altro; continuate a cercare.
Ovviamente, purtroppo, gli amori
non necessariamente sono eterni, ma è importante che ogni amore, finché dura,
sia totale e senza riserve.
Spesso ho sentito dire, anche da eminenti
colleghi, che il maestro Aruta ha sempre avuto una fortuna sfacciata con i
propri strumenti; chi sa perché nessuno ha mai pensato che fossero
semplicemente stati ben scelti. La riprova è che, quando in alcuni casi il
ciclo d’amore cui facevo riferimento si è concluso ed ho divorziato da alcune
delle mie chitarre, queste, considerate strumenti eccezionali, nel convolare a
nuove nozze hanno smesso di essere quelle meraviglie che molti avevano creduto
essere; il motivo, credo, risieda in una mancata nuova empatia.
Anche se ciò che sto per scrivere sembra
contraddire la neutralità che mi ero preposto, alla fine di questa piccola
trattazione non mi esimo dall’esprimere alcune considerazioni personali, fermo
restante che quanto scritto all’inizio rimane la parte più cogente ed esiziale
nella scelta di uno strumento. Le mie preferenze vanno senza dubbio a strumenti
con tavola in abete e questo per il semplice fatto che ho riscontrato negli
anni il fatto che, sebbene l’abete impieghi molto tempo ad essere plasmato, è
più malleabile e nel tempo finirà con l’avere il “nostro” suono e una tavolozza di colori infinita. Il cedro
per contro, seppur immediatamente forse più performante, è notevolmente più
statico e impersonale, o meglio con una sua propria personale coloritura che
sarà onnipresente nel tempo, prendendo il sopravvento sul nostro suono
interiore, a meno che esso non coincida con quello già insito e un po’
monocorde in questa essenza. Preferisco altresì chitarre dalla costruzione
molto leggera; apparentemente questi strumenti paiono avere meno “decibel” ma
sono molto più sensibili al minimo vibrato e ai cambi di timbro. Per me il
vibrato è elemento indispensabile all’espressività dello strumento così come
accade per gli strumenti ad arco, riuscireste a immaginare un violino o un violoncello
senza vibrato? Inoltre in strumenti leggeri è facile ottenere una frequenza di
risonanza di cassa molto più bassa, il che rimette a posto l’equilibrio dello
strumento; in molti “cannoni” dalla
costruzione molto rigida e pesante trovo che l’equilibrio sia contrario a
quello naturale, con bassi roboanti ma spesso vuoti e poco profondi a causa
della mancanza di fondamentale che finiscono col sovrastare il registro acuto e
cantabile dello strumento, creando in questa maniera un qualcosa di speculare e
contrario al mio strumento ideale. La mia predilezione va altresì nella
direzione di strumenti piuttosto piccoli, quasi sempre uno strumento più
piccolo, ovviamente ben costruito, ha una messa a fuoco più precisa rispetto a
quelli di grande formato ed è mia ferma convinzione che un suono più definito
privo di aloni parassiti “arrivi” molto più lontano di un suono roboante ma
confuso.